episodio sofferto. volevo restare sul leggero – ma sono heavy inside – parlando di oggetti. sarebbe stato carino se avessi messo qualche foto degli oggetti di cui parlo. adesso ho troppo sonno, magari domani lo faccio. nel frattempo giusto un’osservazione. dopo aver scritto l’episodio sono capitato per caso sulle pagine di maximu city di suketu mehta (libro meraviglioso, tra l’altro. un “gomorra” per bombay) dove racconta la sua difficoltà come indiano che vive a new york, di abituarsi all’india. mi ha fatto sorridere che anche lui abbia sintetizzato questa difficoltà nel non sapere dove trovare un cavatappi o delle lenzuola a bombay. per il resto, niente da aggiungere: buon ascolto.
oggetti
tornare in india. potrebbe essere il titolo di un romanzo neo epico sulle gesta di un viaggiatore eroico e avventuroso che, partito dal subcontinente alla ricerca della verità , dopo lungo peregrinare e dopo aver incontrato genti di ogni razza e credo, decide di tornare al suo paese, avendo capito che la verità non è mai nel punto dove vuoi arrivare, ma in quello da cui sei partito. per trovarla, bisogna guardarsi indietro, con onestà .
invece niente romanzo neo epico, niente eroico viaggiatore, ma un bischero qualunque, come si direbbe dalle mie parti, che per mille motivi prende la sua via della seta, con scalo a francoforte ed arrivo a madras in piena notte. l’impatto con l’india è comunque una bella botta.
tornando dopo le vacanze, con più distacco della prima volta quando ero letteralmente sopraffatto dalla novità totale e dall’immensità del nuovo mondo, ho potuto visualizzare meglio tutte quelle piccole e stupide cose che rendono questo mondo così diverso, così indiano ai miei occhi. non parlo della spiritualità , dei templi o dei misteri dell’india. parlo di oggetti e piccole cose che possono passare inosservate ma che alla fine fanno di un mondo un mondo.
un posto comune come un cesso non dovrebbe riservare sorprese, e invece è proprio qui che la grande india mi regala la prima scoperta. fuori dai bagni di tutta l’india – no, non li ho visitati proprio tutti di persona ma sembra ragionevole pensare che la mia limitata esperienza diretta possa essere estesa al resto del continente – ci sono i mitici tappetini. banali, non si notano quasi, ma dopo pochi mesi ne sono diventato un fanatico e se davanti al mio bagno non c’è il tappetino divento una iena! sono normali tappetini, di solito non particolarmente pregiati perchè non sono un elemento decorativo ma svolgono l’importante funzione di permettere di asciugarsi i piedi appena usciti dal bagno. in bagno infatti c’è spesso acqua in terra. Solo nelle case più moderne la doccia ha il piatto o una tenda e poi in india, nelle case e in quasi tutti i luoghi chiusi, si sta scalzi dato che le scarpe, per chi le ha, subiscono la sventura di toccare le strade dove mucche, cani e umani depositano i loro resti biologici con millenaria scioltezza. Al momento di entrare, ovunque sia, ma soprattutto in casa, quelle scarpe è bene quindi lasciarle fuori. un po’ per via del fatto che si è sempre a piedi nudi, un po’ perchè c’è spesso dell’acqua in terra, i tappetini permettono di evitare che una casa si trasformi in un pantano nel giro di poche ore. nella sua semplicità , il tappetino adesso è un oggetto al quale non saprei più rinunciare.
sempre restando in casa, un altro oggetto del quale ignoravo l’esistenza e del quale ora sono un fanatico sostenitore è l’accendigas. Nelle case italiane ma anche in altri paesi capita di vedere gli attrezzi più diversi per accendere i fornelli: accendini, fiammiferi, accendigas a fiamma, accendigas a scintilla, ciascuno con la sua forma e i suoi colori. In india sembra esistere solo un modello di accendigas, un cilindrotto di metallo leggermente conico, di una decina di centimetri con due alette su una delle estremità che lo fanno impugnare come si farebbe con una siringa: indice e medio sulle alette e il pollici a spingere un pistoncino a molla che fa scattare una scintilla sulla punta. La punta si mette a contatto con il fornello (se non tocca non funziona), si apre il gas e si preme il pistoncino facendo scattare la scintilla. Beh si è un accendigas. Ma tanto per cominciare in ogni cucina indiana, o almeno quelle che hanno il lusso di possedere un fornello a gas, è presente esattamente lo stesso oggetto e poi, l’oggetto è semplicemente perfetto: è il massimo della sicurezza (impossibile che generi ritorni di fiamma o che si incendi o altre cose spiacevoli) e non sbaglia un solo colpo. Me ne rendo conto, difficile spiegare come si possa diventare fanatici di una cosa cosi’ stupida, ma adesso non riesco più a pensare ad una cucina senza quell’accendigas.
Uscendo dalle tranquille mura domestiche ci si trova spesso in strade affollate e trafficate. Anche la più piccola delle cittadine di provincia in questo paese nasconde almeno un punto affollato, almeno un groviglio di moto, almeno un autista di taxi impazzito. E, ovviamente, i famosi rickshaw, i taxi a pedali. Un tempo i rickhsaw erano una delle icone dell’india. Il modello tradizionale, trainato dall’autista, fu introdotto in india alla fine dell’800 dalla cina e si diffuse nelle principali città dove rimase in uso fino agli anni ’70. poi, data l’estrema pericolosità del mezzo i rickshaw tradizionai furono più o meno messi al bando e sostituiti dai loro equivelanti a pedali, più sicuri e leggermente meno faticosi da condurre per gli autisti. In anni recenti, l’ulteriore e definitiva evoluzione porta a quelli che oggi sono ormai i diffusissimi auto-rickshaw, anche chiamati tuktuk. In india sono spesso basati su un telaio simile all’ape piaggio, con un posto per il guidatore che imbraccia un manubrio da vespa e posti per 2-3 viaggiatori (ma gli indiani sanno riempirlo anche in 6 o 7). il tutto decorato del tipico colore giallo, che li rende visibili a miglia di distanza. Agili nel traffico, consumano pochissimo (35 Km con un litro di carburante), gli auto rickshaw si muovono in sciami per le vie delle città . Hanno clackson a trombetta, ma spesso montano all’interno subwoofer da rave party che riservano per i clienti speciali. Rispettano la legge esibendo il tassametro anche se, purtroppo, il legislatore si è scordato di dire che il tassametro deve anche funzionare, per cui prima di ogni tragitto ci si deve imbarcare in lunghe e penose trattative. All’inizio mi rifiutavo, ora non muovo un passo senza essere portato da un autorickshaw. E, confesso, sarebbe una delle cose che mi porterei in europa più volentieri.
La verisone “grande” del tuk-tuk è però più affascinante da vedere. Sono le mitiche ambassador, macchine dal design inglese anni 50, prodotte dalla indianissima hindustan motors e ormai diventate un’altra icona del paese. Agli occhi di un povero europeo neanche troppo fanatico di macchine come me, risultano semplicemente meravigliose. La maggior parte dei veicoli in circolazione sono impiegati come taxi, ma qualche fortunato le ha anche come macchina privata. Sedili morbidoni di quelli divanetto tutto d’un pezzo, spesso senza aria condizionata, sono le principali responsabili di quel look vagamente retrò che si vede un po’ ovunque. In effetti in india spesso se si eliminassero i cellulari, non si avrebbe necessariamente una chiara percezione del tempo presente: potremmo essere altrettanto facilmente in un qualunque decennio dell’immediato passato, a giudicare dai vestiti delle persone, i tagli di capelli, le case, i manifesti e, ovviamente, dalle macchine in circolazione.
La mia condizione di papà fornirebbe infiniti spunti riguardo agli oggetti e alle cose più o meno inutili ma tipicamente indiane che si trovano qui. Ne colgo solo alcuni, per non esagerare. Scarpe: tutti i bambini sotto i tre anni hanno scarpe che ad ogni passo suonano e fanno le lucine. Mai viste in italia, qui le hanno tutti. Intendo tutti quelli che hanno le scarpe che comunque sono pochi. Altro accessorio tipico dell’abbigliamento infantile in stagione invernale, ovvero in dicembre, dopo il monsone, quando la temperatura scende dai 35 ai 25 gradi centigradi è, udite udite, il passamontagna. Si, ai tropici, per difendersi dal clima particolarmente ostile (tutto è relativo) i bambini si coprono con il passamontagna. Si vedono quindi queste famiglie in moto con padre alla guida, dietro una figlia, dietro ancora la mamma che cavalca all’amazzone con in braccio un neonato e davanti un figlio con i passamontagna. Niente casco che porta sfortuna, e il raffreddore non se lo prende di sicuro.
I bambini, quando non hanno il passamontagna, si ritrovano tutti ai giardini, come ovunque. Qui però i giardini sono un po’ particolari e gli attrezzi che si trovano per far giocare i bambini sembrano più progettati con scopi di controllo demografico che per procurare divertimento. Tutti i gli attrezzi sono costruiti in metallo e cemento. Scivoli ripidissimi e molto alti, brandelli di plastica tagliente agganciati a piccoli bilanceri sgangherati in ferro, pezzi di legno appesi a pesanti catene di acciaio. Bisogna conoscere bene la meccanica e la fisica per riuscire a prevedere quali saranno le oscillazioni di un copertone appeso ad un cavo di acciaio con un cilindro di metallo pieno che abbassa il baricentro. È un pendolo composto che da origine ad un sistema dinamico con attrattore caotico e quando meno te l’aspetti, se non hai integrato correttamente le equazioni del moto, il cilindro ti arriva in piena fronte. Chi riuscisse comunque a passare l’esame di fisica 1 sopravvivendo ai pendoli e ai bilanceri deve vedersela con l’elettromagnetismo per riuscire a gestire i cavi scoperti che vengono nascosti nelle aiuole. Il bimbo che toccasse uno di quei cavi potrebbe sperimentare un paio di leggi di coulomb e anche quella di ampere su se stesso. Però poi alla fine avrebbe interiorizzato completamente le equazioni del campo elettromagnetico. Forse a pensarci bene è per questo che gli indiani sono cosi’ forti nelle scienze, è perchè da piccoli sono confrontati direttamente con le leggi della fisica applicate alla sopravvivenza ai giaridni.
In casa i pericoli da folgorazione non sono da meno. La qualità dell’energia elettrica fornita purtroppo è talmente scarsa che ogni elettrodomestico un po’ delicato (frigorifero, aria condizionata e computer) è attaccato ad uno scatolotto che ammrtizza un po’ gli sbalzi di tensione dovuti alla fornitura scostante di energia. Nelle case e negli uffici quindi questi attrezzi non sono attaccati direttamente alla spina al muro ma ad uno scatolotto esterno. Questi scatolotti sono un’altra presenza alla quale uno si abitua lentamente e dopo un po’ gli sembra la cosa più naturale del mondo. Dovendo cercare casa, può capitare di non chiedere al proprietario durante la visita ad un appartamento cose tipo: “è un quartiere rumoroso?” oppure “si pratica la raccolta differenziata dei rifiuti nel condominio?” ma piuttosto: “dov’è l’inverter?”. L’inverter è praticamente una mega batteria o una serie di batterie che forniscono energia in caso di interruzione del servizio (cosa che capita, in media, anche una volta al giorno). Ci sono interi condomini di 3-4 appartamenti attaccati ad una batteria.
Altri oggetti dei quali prima ignoravo l’esistenza, da ormai quasi un anno sono entrati a far parte della mia quotidianeità . I ventilatori appesi al soffitto di tutte le stanze di tutte le case, i lucchetti con i quali si chiudono tutti i cancelli, gli scopini di saggina senza bastone ma con un manico molto allungato che sostituiscono le tradizionali scope. Quante cose adesso sono entrate nella mia normalità e quante altre ne sono uscite: a pondicherry saprei benissimo dove comprare una trappola per topi ma non un cavatappi. Saprei subito dove comprare un tappetino da bagno ma non dove trovare uno stendipanni, so dove trovare un tecnico per installare un inverter, ma non dove trovare due lenzuola.
Negli oggetti non c’è forse nascosta nessuna grande verità , ma sono comunque pezzetti della nostra vita che ci accompagnano da un posto all’altro contribuendo ad orientarci, a dirci dove siamo. Familiarizzare con questi oggetti vuol dire familiarizzare con un mondo. È un modo per sentirsi un po’ meno estranei. E poi a me gli oggetti piacciono soprattutto gli oggetti di casa. Lo so già adesso che il giorno in cui lascerò l’india, ovunque devrò andare, nella mia valigia non riuscirò ad impedirmi di portarmente qualcuno dietro.
Caro Paolo,
un episodio semplicemente strepitoso nella sua semplicita’…
Moreno.
caro moreno,
grazie mille, mi fa sempre molto piacere sapere che ascolti!
che bello, questo non lo avevo letto…
ma questi sono post da ascoltare, non da leggere 😉
buon natale a tutti a voi lassù all’eremo. p.