Misurare il no-profit

[Articolo scritto per l’Albero Verde, Febbraio 2013]

Il recente libro di Valentina Furlanetto ha scatenato numerose polemiche. Senza entrare nel merito della valutazione del lavoro della giornalista, è necessario sottolineare che i temi affrontati nel libro sono reali e importanti. Meritano una riflessione accurata. Mi sembra che la domanda di fondo del libro possa essere riassunta così: come utilizzano le risorse raccolte le organizzazioni che a vario titolo chiedono  soldi (pubblici e privati) per una causa benefica? Può sembrare una domanda troppo generica, ma non lo è.

E’ una domanda che riguarda tutto il variegato mondo del no-profit, che racchiude associazioni di volontariato, organizzazioni umanitarie, organizzazioni di cooperazione internazionale e molto altro. Indipendentemente dalla dimensione dell’organizzazione, dalla storia, dalle prospettive, dalla natura dei fondi, la domanda è la stessa. Per un’organizzazione il cui scopo istituzionale, non è fare soldi, diventa rilevante sapere come i soldi raccolti sono spesi. Questo come riguarda essenzialmente tre differenti questioni, che spesso sono confuse nelle valutazioni: la trasparenza, l’efficacia e l’efficienza, elencate in una mia personale concatenazione di pre-condizioni causali: senza trasparenza non può esserci efficacia e senza efficacia non può esserci efficienza; però quest’ultima da sola non assicura né la seconda né, tantomeno, la prima.
La trasparenza. E’ la questione di base alla quale devono rispondere gli enti no-profit, ovvero: dove vanno a finire i soldi? La trasparenza è alla base di qualunque ulteriore ragionamento si voglia fare. Se non c’è una chiarezza cristallina sui soldi spesi, non è possibile valutare se questi soldi siano spesi bene o male. Per non parlare poi di quelli che entrano. A volte si trascura questo aspetto ma essere chiari sui soldi che entrano nel caso degli enti no-profit è, se possibile, ancora più rilevante di come i soldi vengono spesi. Le organizzazioni hanno diversi strumenti a disposizione per essere trasparenti: pubblicare i propri bilanci secondo gli standard di settore, far certificare i propri conti da revisori riconosciuti. La legge potrebbe aiutare di più, imponendo l’utilizzo di questi strumenti che restano al momento una scelta quasi solo volontaria. I donatori però, da quelli più piccoli a quelli più grandi, hanno la possibilità di capire chi sui propri fondi è chiaro e chi no.

L’efficacia. Una volta che sia chiaro come i soldi entrano ed escono, e solo a questo punto, ci si deve interrogare su quanto efficacemente vengono spesi. Ovvero se con i soldi entrati si sono ottenuti i risultati o, come si dice oggi, l’impatto desiderato. Il principio è tanto semplice da enunciare quanto complesso da realizzare. Cosa vuol dire misurare l’impatto di un’organizzazione? E poi, è possibile farlo in modo standard, così da permettere un confronto oggettivo tra organizzazioni? Sono questioni sulle quali il mondo della Cooperazione, ma non solo, si interroga da sempre. Negli ultimi anni si è animato un dibattito molto ricco sull’efficacia degli aiuti che ha portato il mondo delle ONG a definire 8 principi, noti come i principi di Istanbul, per misurare l’efficacia di un’organizzazione. La questione è però tutt’altro che esaurita perché coinvolge degli interrogativi di fondo. Prima di avventurarci a dire se abbiamo avuto o meno un impatto, dobbiamo chiarirci bene rispetto a quale idea di riferimento. In altre parole, dobbiamo chiarire quale sia il modello di sviluppo che stiamo seguendo. In questo esercizio l’analisi di bilancio ci aiuta fino ad un certo punto e per trarre delle conclusioni è indispensabile andare a mettere i piedi (e la testa) nei luoghi di intervento. Osservare la realtà, ascoltare le persone, effettuare misure, analizzare dati.
L’efficienza. Rispetto alla sola misura dell’efficacia, fatta salva la trasparenza, non è rilevante come vengono spesi i soldi. Per intenderci: se un’organizzazione ha come missione la riduzione della povertà e si ponesse l’obiettivo di raddoppiare il reddito della popolazione  di una certa regione  e da una valutazione di impatto risultasse che effettivamente l’obiettivo è stato raggiunto, con una gestione chiara e trasparenze dei fondi, potremmo serenamente affermare che l’organizzazione è stata fedele alla propria mission ed è stata efficace perché ha raggiunto l’obiettivo. Resta però aperta la questione se i fondi utilizzati per ottenere quel risultato fossero adeguati o eccessivi. La domanda è rilevante di nuovo nel settore no-profit perché, fatta salva, lo ripeto, la trasparenza e l’efficacia, c’è implicito in un qualunque donatore l’intento di fare il massimo possibile con le proprie risorse e, ancora prima, il desiderio che le risorse utilizzate siano impiegate solo per quello che è strettamente necessario. Il desiderio è legittimo e condiviso: il massimo possibile e lo stretto indispensabile. Per costruire una scuola, una volta comprati cemento e i mattoni, serve un muratore. E serve una persona che faccia in modo che il cemento, mattoni e muratore arrivino al momento giusto nel luogo dove deve essere costruita la scuola. Ancora prima, serve un’organizzazione che sia in grado di ottenere i fondi necessari a pagare almeno l’acquisto del materiale e il compenso del muratore, ma anche che garantisca (per trasparenza ed efficacia) che la scuola sarà costruita, utilizzata a mantenuta in buono stato anche quando i fondi usati per costruirla saranno finiti da tempo. E’ abbastanza intuitivo che maggiore sarà l’entità delle risorse mobilitate, maggiore sarà la struttura necessaria per ottenerle e gestirle. Il principio è chiaro, si potrebbero trovare mille altri esempi ma non importa: per fare delle cose, per realizzare delle attività, serve una struttura. La domanda ricorrente è quale sia una proporzione accettabile tra il costo della struttura e il costo delle attività? Qui si apre un oceano di arbitrio, nel quale si fatica a trovare un orientamento. Non ci sono standard di riferimento ma solo comparazioni, che hanno l’effetto di innescare una sorto di gara al ribasso dove vince chi sembra costare meno e fare di più. Ma ha senso separare in un’organizzazione la struttura che la fa funzionare dalle attività che questa realizza? Fare comunicazione sui temi sui quali un’organizzazione lavora, non contribuisce a raggiungere la mission? Se i costi di struttura diventano una vergogna, un costo ingiustificabile, può essere legittimo cercare di abbassarli a tutti i costi, ad esempio sacrificando i diritti dei lavoratori che per la struttura lavorano, con contratti precari ma meno costosi.
La valutazione sull’etica dell’utilizzo delle risorse di un’organizzazione no-profit, in entrata e in uscita, non può trascurare nessuno di questi tre aspetti: la trasparenza, l’efficacia e l’efficienza. Non è un lavoro facile e ridurlo a qualche percentuale è un’operazione pericolosa. Questo non vuol dire che le lavorare nel no-profit costituisca un’autoassoluzione a priori. Invece è fondamentale che come organizzazioni no-profit facciamo tutto il possibile per render conto di come vengono utilizzate le nostre risorse per un dovere di eticità nei confronti delle persone per le quali e con le quali lavoriamo, di tutte le persone e istituzioni che affidano a noi le loro risorse ma anche, e non ultimi, di noi stessi.

Il recente libro di Valentina Furlanetto ha scatenato numerose polemiche. Senza entrare nel merito della valutazione del lavoro della giornalista, è necessario sottolineare che i temi affrontati nel libro sono reali e importanti. Meritano una riflessione accurata. Mi sembra che la domanda di fondo del libro possa essere riassunta così: come utilizzano le risorse raccolte le organizzazioni che a vario titolo chiedono soldi (pubblici e privati) per una causa benefica? Può sembrare una domanda troppo generica, ma non lo è. Ed è una domanda che riguarda tutto il variegato mondo del no-profit, che racchiude associazioni di volontariato, organizzazioni umanitarie, organizzazioni di cooperazione internazionale e molto altro. Indipendentemente dalla dimensione dell’organizzazione, dalla storia, dalle prospettive, dalla natura dei fondi, la domanda è la stessa. Per un’organizzazione il cui scopo istituzionale, non è fare soldi, diventa rilevante sapere come i soldi raccolti sono spesi. Questo come riguarda essenzialmente tre differenti questioni, che spesso sono confuse nelle valutazioni: la trasparenza, l’efficacia e l’efficienza, elencate in una mia personale concatenazione di pre-condizioni causali: senza trasparenza non può esserci efficacia e senza efficacia non può esserci efficienza; però quest’ultima da sola non assicura né la seconda né, tantomeno, la prima.

La trasparenza. E’ la questione di base alla quale devono rispondere gli enti no-profit, ovvero: dove vanno a finire i soldi? La trasparenza è alla base di qualunque ulteriore ragionamento si voglia fare. Se non c’è una chiarezza cristallina sui soldi spesi, non è possibile valutare se questi soldi siano spesi bene o male. Per non parlare poi di quelli che entrano. A volte si trascura questo aspetto ma essere chiari sui soldi che entrano nel caso degli enti no-profit è, se possibile, ancora più rilevante di come i soldi vengono spesi. Le organizzazioni hanno diversi strumenti a disposizione per essere trasparenti: pubblicare i propri bilanci secondo gli standard di settore, far certificare i propri conti da revisori riconosciuti. La legge potrebbe aiutare di più, imponendo l’utilizzo di questi strumenti che restano al momento una scelta quasi solo volontaria. I donatori però, da quelli più piccoli a quelli più grandi, hanno la possibilità di capire chi sui propri fondi è chiaro e chi no.

L’efficacia. Una volta che sia chiaro come i soldi entrano ed escono, e solo a questo punto, ci si deve interrogare su quanto efficacemente vengono spesi. Ovvero se con i soldi entrati si sono ottenuti i risultati o, come si dice oggi, l’impatto desiderato. Il principio è tanto semplice da enunciare quanto complesso da realizzare. Cosa vuol dire misurare l’impatto di un’organizzazione? E poi, è possibile farlo in modo standard, così da permettere un confronto oggettivo tra organizzazioni? Sono questioni sulle quali il mondo della Cooperazione, ma non solo, si interroga da sempre. Negli ultimi anni si è animato un dibattito molto ricco sull’efficacia degli aiuti che ha portato il mondo delle ONG a definire 8 principi, noti come i principi di Istanbul, per misurare l’efficacia di un’organizzazione. La questione è però tutt’altro che esaurita perché coinvolge degli interrogativi di fondo. Prima di avventurarci a dire se abbiamo avuto o meno un impatto, dobbiamo chiarirci bene rispetto a quale idea di riferimento. In altre parole, dobbiamo chiarire quale sia il modello di sviluppo che stiamo seguendo. In questo esercizio l’analisi di bilancio ci aiuta fino ad un certo punto e per trarre delle conclusioni è indispensabile andare a mettere i piedi (e la testa) nei luoghi di intervento. Osservare la realtà, ascoltare le persone, effettuare misure, analizzare dati.

L’efficienza. Rispetto alla sola misura dell’efficacia, fatta salva la trasparenza, non è rilevante come vengono spesi i soldi. Per intenderci: se un’organizzazione ha come missione la riduzione della povertà e si ponesse l’obiettivo di raddoppiare il reddito della popolazione di una certa regione e da una valutazione di impatto risultasse che effettivamente l’obiettivo è stato raggiunto, con una gestione chiara e trasparenze dei fondi, potremmo serenamente affermare che l’organizzazione è stata fedele alla propria mission ed è stata efficace perché ha raggiunto l’obiettivo. Resta però aperta la questione se i fondi utilizzati per ottenere quel risultato fossero adeguati o eccessivi. La domanda è rilevante di nuovo nel settore no-profit perché, fatta salva, lo ripeto, la trasparenza e l’efficacia, c’è implicito in un qualunque donatore l’intento di fare il massimo possibile con le proprie risorse e, ancora prima, il desiderio che le risorse utilizzate siano impiegate solo per quello che è strettamente necessario. Il desiderio è legittimo e condiviso: il massimo possibile e lo stretto indispensabile. Per costruire una scuola, una volta comprati cemento e i mattoni, serve un muratore. E serve una persona che faccia in modo che il cemento, mattoni e muratore arrivino al momento giusto nel luogo dove deve essere costruita la scuola. Ancora prima, serve un’organizzazione che sia in grado di ottenere i fondi necessari a pagare almeno l’acquisto del materiale e il compenso del muratore, ma anche che garantisca (per trasparenza ed efficacia) che la scuola sarà costruita, utilizzata a mantenuta in buono stato anche quando i fondi usati per costruirla saranno finiti da tempo. E’ abbastanza intuitivo che maggiore sarà l’entità delle risorse mobilitate, maggiore sarà la struttura necessaria per ottenerle e gestirle. Il principio è chiaro, si potrebbero trovare mille altri esempi ma non importa: per fare delle cose, per realizzare delle attività, serve una struttura. La domanda ricorrente è quale sia una proporzione accettabile tra il costo della struttura e il costo delle attività? Qui si apre un oceano di arbitrio, nel quale si fatica a trovare un orientamento. Non ci sono standard di riferimento ma solo comparazioni, che hanno l’effetto di innescare una sorto di gara al ribasso dove vince chi sembra costare meno e fare di più. Ma ha senso separare in un’organizzazione la struttura che la fa funzionare dalle attività che questa realizza? Fare comunicazione sui temi sui quali un’organizzazione lavora, non contribuisce a raggiungere la mission? Se i costi di struttura diventano una vergogna, un costo ingiustificabile, può essere legittimo cercare di abbassarli a tutti i costi, ad esempio sacrificando i diritti dei lavoratori che per la struttura lavorano, con contratti precari ma meno costosi.

La valutazione sull’etica dell’utilizzo delle risorse di un’organizzazione no-profit, in entrata e in uscita, non può trascurare nessuno di questi tre aspetti: la trasparenza, l’efficacia e l’efficienza. Non è un lavoro facile e ridurlo a qualche percentuale è un’operazione pericolosa. Questo non vuol dire che le lavorare nel no-profit costituisca un’autoassoluzione a priori. Invece è fondamentale che come organizzazioni no-profit facciamo tutto il possibile per render conto di come vengono utilizzate le nostre risorse per un dovere di eticità nei confronti delle persone per le quali e con le quali lavoriamo, di tutte le persone e istituzioni che affidano a noi le loro risorse ma anche, e non ultimi, di noi stessi.