negli ultimi secoli del millennio, in una grande e popolata città di confine che separava due mari e due continenti, viveva pietro, appassionato di fiori.
pietro non era affatto una persona strana, stralunata o comunque fuori dagli schemi. c’aveva pure un lavoro, un lavoro normale. faceva… si, faceva… ecco, non me lo ricordo, ma insomma era un lavoro normale. pietro era una persona assolutamente normale. avrebbe potuto essere sposato, avere qualche figlio. ma anche essere un single trentenne maturo. non lo avresti detto, poteva essere tranquillamente una qualunque di queste cose. non avresti saputo dirlo con esattezza quando lo vedevi nel suo prato fiorito. pietro passava le sue giornate in un prato di margherite e papaveri. era un prato normale, un po’ in periferia. un pezzo di terra conquistato al cemento, un piccolo angolo di resistenza tra due immensi palazzi grigi. troppo curato per essere un campetto abbandonato tra un palazzo e un altro, troppo anonimo per essere un vero giardino. questo prato normale era per un uomo normale come pietro, un tesoro di luce d’argento.
nessuno avrebbe detto che fosse qualcosa di speciale, o anche solo qualcosa di fatto apposta cosi’ come era. nella sua normalità , ordinarietà , era quasi mimetico. un campo di margherite e papaveri, un praticello qualunque, un po’incolto, con fiori di quelli che crescono spontaneamente un po’ ovunque. si, certo, nelle città moderne è sempre più difficile vedere margherite e papaveri, e nella grande metropoli hce separa i due mari e due continenti lo era ancora di più, ma insomma, questo non vuol dire che potremmo pensare che qualcuno si metterebbe a “coltivarliâ€. pietro invece dedicava a quel prato infinite attenzioni in un vero e proprio sforzo creativo. pietro non era di quelli che compensano l’incapacità di amare riversando su vegetali o animali i sentimenti che non riescono a trasmettere ai propri simili. pietro non amava i suoi fiori, li usava per comporre la propria opera artistica; era la sua poesia. pietro la chiamava l’illusione. ogni fiore aveva nel campo un ruolo preciso, studiato attentamente e ciò che sembrava un semplice praticello spontaneo, era una studiatissima sinfonia foreale. i papaveri sormontavano di poco le margherite e si mescolavano a queste in modo da generare illusioni di forme e riflessi. se guardavi il campo da lontano e ti concentravi sulle margherite, ad un certo punto i papaveri cominciavano a comporre delle figure note. un uccello in volo, due occhi di donna. ma l’illusione più bella era quando dai papaveri nasceva un altro fiore. un grande fiore composto di fiori, mascherati da altri fiori. ci si poteva perdere solo all’idea, vederlo, era davvero uno spettacolo.
a cui nessuno faceva caso, va detto, nonostante il praticello fosse in bella vista in una zona molto trafficata. ma chi potrebbe mai sospettare che quello che sembra un semplice prato di margherite e papaveri fosse il risultato di instancabile dedizione e passione travolgente, che offriva illusioni floreali e memorie di profumi? quei fiori crescevano su sangue e sudore (metaforici, si intende) e pulsavano di vita. ma nessuno se ne accorgeva.
marco era il migliore amico di pietro. erano cresciuti insieme, come due fratelli. avevano passato tanto di quel tempo insieme che non sapevano nemmeno più dire se si volessero bene o anche se si stavano simpatici. erano insieme punto e basta. marco era un bel ragazzo, spalle larghe, carnagione leggermente olivastra, occhi grandi e buoni e un sorriso accattivante che faceva impazzire le ragazze. molto intelligente, un piccolo genio della matematica, non seduceva le sue molte conquiste con complicati trattati sulle geometrie non-euclidee, ma con una irresistibile carica di simpatia che avrebbe strappato una risata al più serioso degli integralisti cattolici.
marco aveva una moto e andava spesso a trovare pietro. arrivava vestito di pelle nera, si fermava, spegneva il motore inclinandosi leggermente per appoggiare la moto. con armonia allungava il cavalletto, stendendo la gamba che poi avrebbe appoggiato a terra. i pantaloni stretti facevano risaltare i muscoli che si tendevano leggermente mentre la gamba ruotava per scendere dalla moto. Una volta in piedi, la mano destra afferrava il casco mentre la sinistra scioglieva il gancio sotto il mento. Le nocche perfette della mano liberavano la testa mostrando gradualmente il viso e gli occhi, confermando che, si, quei muscoli e quella pelle avrebbero potuto davvero dare tutto ciò che promettevano.
a pietro, marco non sempre andava giù. probabilmente più per invidia che per altro, ma insomma quel suo modo di fare lo infastidiva. un po’ come quando arrivava con la sua moto e piantava un’inchiodata sul bordo del pratino, rischiando di falciare un paio di metri quadrati delle prezione marghrite e papaveri. marco non ci faceva caso, non gli interessava molto. veniva da pietro perchè erano insieme da una vita. “ciao pietroâ€, lo chiamava. “attento ai fioriâ€, gli rispondeva pietro. marco iniziava a raccontargli delle sue conquiste la sera prima e pietro non riusciva a togliere l’attenzione su quella moto che rischiava di schiacciare le sue margherite e i suoi papaveri. dentro di se ripeteva in modo quasi maniacale: “sposta la moto, altrimenti mi schiacci i fiori; dovresti spostare la moto, ci ho messo tanto a sistemarli; ecco perchè non sposti la moto; fai attenzione alla ruota; si, fermo, non lasciarla qui, sposta la motoâ€.
ogni tanto ne parlavano anche dei fiori. marco gli chiedeva “ma perchè passi tutto’sto tempo in questo prato. lo sai che papaveri e margherite crescono anche se non li curi? e perchè passi tutto questo tempo qui? oltretutto qui ti vedono tutti e, lasciatelo dire, ci fai un po’la figura del fesso. scusa, magari passa uno a cui stai sulle balle e tu ti fai beccare qui in mezzo alle margherite. sei veramente… eccessivo. non ti senti ridicolo, non ti sembra di esagerare? ma a chi credi che interessi dei tuoi fiori? e poi in fondo non interessa neanche a te: a volte te ne vai per mesi e lasci il prato incolto…â€.
pietro non rispondeva. o meglio, lo faceva a modo suo: per qualche giorno lasciava che i papaveri si impossessassero del prato, che soffocassero tutte le margherite, trasformando il prato in una enorme macchia di collera. che i papaveri urlassero sguaiati al vento come lui non sapeva fare. marco aveva ragione, con questa mania si rendeva un po’ ridicolo e si esponeva. ma che ci poteva fare? del resto lui era sincero, questa era la cosa più importante.
con i suoi fiori pietro spesso componeva dei mazzi per regalari alle persone che incontrava, alle persone che amava. non faceva mai lo stesso mazzo e ogni volta era quacosa di speciale per la persona, ma alla fine sembrava sempre un mazzetto di margherite e papaveri raccolti per caso da una campo. le persone che lo ricevevano ringraziavano apprezzando sinceramente questo gesto spontaneo di un regalo all’antica, un mazzetto di fiori di campo, ma quasi mai riuscivano a cogliere l’opera di pietro, quello che lui voleva veramente comunicare. cristalli di anima decorati di rosso e bianco, leggermente scossi dal vento, dai bagliori confusi ma pieni.
pietro viveva nella periferia della megalopoli al confine tra due mari e due continenti, non lontano dal suo prato e non aveva molte occasioni di andare in centro, dato che anche il lavoro, si… il lavoro, non so dove lavorasse esattamente ma comunque non ci andava spesso in centro. anzi, non ci andava quasi mai. non gli piaceva proprio, c’era troppa gente, troppo casino. in realtà non è che gli desse fastidio la gente, è solo che si rendeva conto che li non ci sarebbe stato spazio per i suoi fiori. a volte marco lo veniva a prendere con la sua moto e gli diceva: “dai, pietro, andiamo a fare un giroâ€. qualche volta pietro cedeva, dava un ultimo sguardo ai suoi fiori, saliva sulla moto e partiva con marco. si teneva al portabagagli della moto e teneva la visiera del casco alzata per fare entrare l’aria. gli piaceva guardare la città che passava veloce e quasi gli piaceva perdersi lentamente nel timore di quella passeggiata in centro che lo spaventava ogni volta come se fosse stata la prima. uffa.
arrivavano fuori dalle mura, lasciavano la moto e partivano a piedi. passando sotto l’antica porta medievale pietro sentiva come un brivido e pensava al fiore blu della notte per farsi coraggio. iniziavano a percorrere quella che era stata la via principale, lastricata di pietra, dove un tempo, secoli prima, erano passati animali, merci e umani che dentro la città cercavano il proprio destino e la propria fortuna. proprio come adesso. una volta entrati marco smetteva di parlare. sapeva che pietro era concentrato sulla sopravvivenza e non voleva disturbarlo. gli stava vicino per non farlo sentire solo. Si infilavano nel mercato, il grande suk fatto di fumi e odori fortissimi. ad ogni angolo c’era un venditore che sbraitava in tutte le lingue del mondo cercando di attirare l’attenzione dei passanti. donne grasse strascicavano la propria djellaba da un banco all’altro, costituendo un unico macroorganismo oscillante, un millepiedi in ciabatte che avanzava lentamente. bisognava fare attenzione, se per caso si veniva fagocitati dal millepiedi, se ne diventava parte e non ci si poteva più liberare. si raccontava di molte persone finite per disattenzione nel ventre del macro-millepiedi e che non erano mai più riuscite a venirne fuori, costrette a ciondolare da un banco all’altro per tempi infiniti.
in giro i pericoli non si limitavano solo al millepiedi. c’erano mendicanti e miserabili di ogni sorta che ad ogni passo si attaccavano porgendo una mano (chi ne aveva) o una smorfia rivoltante per avere qualche soldo in cambio o un pezzo di pane. storpi, infermi. una donna in piedi ad un angolo di strada che mostra al mondo la testa piagata di suo figlio piagnucolando parole di carità mentre il bimbo piange conscio della sua miseria; un uomo che mostra a tutti i suoi due piedi distrutti e purulenti, attraversa la strada striciando sangue e umori di ogni genere mentre un carro quasi lo investe, non per sbaglio ma intenzionalmente. un vecchio con un buco in gola dal quale esce un tubo di plastica sibila qualcosa allungando la mano lurida, è coperto di piaghe e le mostra come un vanto. è il suo certificato di malsana e debole costituzione unabandiera di sfiga che sventola sguaiata reclamando attenzione. in un angolo, due ragazzi si azzuffano. spunta un coltello. pochi istanti e un colpo raggiunge l’addome di uno dei due che finisce a terra in una pozza di sangue. tutti urlano, qualcuno scappa, arriva la polizia e inizia a pestare chi gli passa sotto mano. “tanto son tutti farabuttiâ€.
la grande città di confine, che separa due mari e due continenti è un posto duro. marco sa come muoversi e non si turba più di tanto. sorride a tutti, quando qualcuno diventatroppo pesante lo liquida con due parole. pietro è sopraffatto. non riesce quasi a respirare. cerca di pensare ai suoi fiori per distrarsi, ma non ci riesce, il mondo intorno a lui è troppo forte, lo chiama in continuazione, lo strattona per la maglia, gli urla nelle orecchie e, oddio, lo chiama per nome!
all’improvviso pietro sobbalza, qualcosa l’ha toccato, gli ha sfiorato la pelle, si gira di scatto marco non c’è più, è solo. lancia un urlo fortissimo. sul suk per un istante cala un petalo di silenzio. il petalo azzurro scende lentamente ma un attimo prima di arrivare a terra si infrange, rotto dalla risata di un pazzo seduto su un carretto che mangia i chicchi rossi di un melograno mentre osserva divertito la scena. in tasca, ha un mazzetto di papaveri e margherite.