fokhra, estate 2006. sperduto nella campagna marocchina tra khouribga e marrakech, un villaggio di circa 2000 anime impolverate e inaridite dall’arsura e dalla solitudine. non c’è un filo d’ombra a perdita d’occhio. per la verità non c’è nulla a perdita d’occhio. l’unico segno di presenza umana che ci accoglie quando arriviamo alla guida del nostro enorme 4×4, è una tettoia che copre tre angurie e due polli. pare che questo sia il centro del villaggio.
in questo posto si vedono abbastanza stranieri da non restarne troppo stupiti, ma non abbastanza da non notarli proprio. e noi non passiamo inosservati. ieri sono venuti dei ricercatori americani e domani si sa che verranno dei giornalisti dell’AFP, l’agenzia di stampa francese. questo posto dimenticato dal re e dagli uomini (Dio, ci illudiamo che non dimentichi mai davvero nessuno) è in realtà al centro dell’attenzione di molti stranieri. perchè? qui non c’è luce elettrica, la gente ha solo un paio di pannelli solari noleggiati da una società privata. non c’è acqua, solo un pozzo, con accesso a pagamento. non c’è una strada, solo la pista. e allora, perchè gli stranieri si interessano tanto a fokhra?
mimetizzati dal caldo accecante, due ragazzi sbucano dal nulla indossando le maglie di ronaldo e del piero. ci sorridono, lo sanno benissimo cosa cerchiamo e, senza troppi pudori, senza farsi troppo pregare, iniziano a raccontare. un anno fa da questo villaggio sono partiti oltre 200 ragazzi. sono partiti sperando di raggiungere l’europa, e sono partiti con l’idea che ci avrebbero provato a tutti i costi. sono tutti morti nel mediterraneo. oltre 200 ragazzi di fokhra sono morti lasciando nel loro villaggio un vuoto incredibile. agli stranieri interessa la loro storia e noi, come gli altri, gli chiediamo di raccontarcela. i due ragazzi raccontano senza dirci il loro nome e non ci guardano quasi. blazés. vedo le loro maglie da giocatori e dentro di me non riesco a evitare di chiamarli “ronaldo†e “del pieroâ€. incapaci di fare domande, ascoltiamo “del piero†in silenzio quando ci spiega come questi morti siano adesso considerati degli eroi, che hanno avuto il coraggio di spendere la propria vita per inseguire un sogno, e come i trafficanti che li hanno convinti a salire su quella zattera bucata, siano considerati dei robin-hood, dei salvatori che si impegnano con l’unico scopo di togliere ai ricchi (che sarebbero gli europei) per dare ai poveri (i migranti). per adesso, però, i soldi li hanno presi solo dai poveri. oltre 3000 euro è fruttata ai trafficanti, ai passeur, ognuna di quelle morti. mentre agli abitanti di fokhra cosa resta di questa tragedia? ai genitori, ai fratelli agli amici di questi 200 ragazzi, cosa resta? i sassi e l’arsura di fokha. come prima. “del piero†ci dice che ha già da parte i soldi per tentare anche lui la fortuna. per quanto assurdo possa sembrare qui sotto il sole, sappiamo che lo farà .
dal caldo e dalla polvere sbucano a poco a poco altri ragazzi, altri bambini, che improvvisano una partita di calcio in mezzo al nulla. non c’è un campo, non ci sono squadre. per la verità anche il pallone non è in ottima salute, ma lo è quanto basta per prenderlo a calci. noi ci incamminiamo lungo la strada, per dare un’occhiata in giro. arriviamo ad una tenda fissata ad un palo piantato in terra, da una parte, e ad un motorino dall’altra. nel mezzo, all’ombra, una combriccola di vecchini sghignazzanti e un barbiere, con un cliente avvolto in una improbabile bandiera della pace rimediata chissà dove. dicono che si stanno facendo belli per le loro mogli, per poter fare l’amore stasera. le risate sdentate ci contagiano subito, fin quasi alle lacrime. in quanto stranieri, verso i quali il dovere dell’ospitalità è quasi sacro, rimediamo inviti a passare la notte al villaggio, a cenare o almeno a prendere un thè. vada per quest’ultimo.
seguiamo “del piero†che ci porta a casa sua. un muretto di pietra circonda l’aia su cui si affaccia la casa. tre stanzoni grandi e vuoti. un magazzino per gli attrezzi, uno per il cibo, e la stanza per dormire, mangiare e accogliere gli invitati. ci sediamo su delle stuoie mentre su un tavolino basso si porta il te, pane e burro. tutto fatto da loro, con il latte dei pochi animali che hanno. la terra qui non è molto generosa e produce circa un decimo di quello che produce in europa. le persone ne hanno appena per mangiare loro stessi e nutrire i pochi animali che gli danno uova, latte e un po’ di carne. ingenauamente, chiediamo se arrivano ogni tanto a vendere un po’ di quello che producono. ci rispondono che non sta bene vendere i beni di base come il burro e le uova. se qualcuno dei loro vicini non li può produrre lui stesso, gli altri glielo regalano. sarebbe visto come un atto di un egoismo inaccettabile vendere il cibo. perchè tutti hanno diritto a mangiare. incassiamo, in silenzio, la lezione. pane e burro sono ottimi.
ce ne rientriamo in città a sera. è buio. vediamo l’insegna luminosa del caffé Avola, come il paese siciliano. E’ stato costruito da un marocchino che è vissuto 35 anni in Italia, ad Avola, appunto. Con i risparmi di una vita ha aperto questo bar, decorato con ceramiche marocchine e stampe d’epoca del sud d’italia. stasera è stracolmo di gente. c’è la semifinale dei mondiali di calcio: italia-germania. il tifo è monocolore: tutti per l’italia, senza esitazioni. ci sediamo in mezzo alla gente, che ci fa festa e partecipa più di noi. mi domando se i ragazzi di fokhra possono vedere la partita, se il loro pannello solare basta per alimentare una televisione, e se una televisione ce l’hanno. speriamo di si, perchè potrebbero vedere del piero, quello vero, segnare il gol della vittoria. davanti alla meritata gioia dei giocatori azzurri, abbracciando sconosciuti mai visti prima con i quali condividiamo questo entusiasmo effimero, mi domando anche se il vero del piero sa che un ragazzino di cui non sappiamo il nome, in un villaggio del marocco dimenticato dal re e dagli uomini, stanotte dormirà con la sua maglia.